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RAINER WERNER FASSBINDER
  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 ottobre 1993
 
 
Come Godard, l'altro eterno enfant terrible del cinema europeo degli ultimi vent'anni, Rainer Werner Fassbinder aveva una reputazione terribile.Una reputazione che, seguendo uno degli aspetti fondamentali del proprio carattere, si guardava bene dall'evitare di accentuare. A cominciare dal suo modo di andarsene in giro sbracato, l'orribile canottiera a rete nera, il blusotto da motociclista, gli stivali da feticista e i cinturoni con le borchie. Arrivava all'appuntamento con la bottiglia di birra vuota a metà, e durante l'intervista ne traeva lunghe sorsate asciugandosi i baffi alla cinese con ii dorso della mano.

Come per Godard, mi avevano prevenuto da giorni: sarà terribile, odia i giornalisti, farà di tutto per aggredire e provocare. Cercando di interpretare quello sguardo tra l'assente e il divertito, che si intravvedeva appena dietro agli occhialini oscuri gli dissi che avremmo avuto dei probiemi. Non fosse altro che per la sua lingua che io maltratto. E per i suoi borbottii, che avrei a malapena interpretato.Ebbene, lo avrete ormai compreso Fassbinder fu squisito: si preoccupò di tutto. Che il suo pensiero fosse chiaro, che io riuscissi a capire e a tradurre. Che il tutto, insomma, si svolgesse secondo le regole della professionalità. Nascosto dietro la sua enorme maschera provocatoria era, prima di ogni altra cosa un grandissimo professionista. L'omosessualità, l'alcool o la droga che egli continuamente sbandierava c'erano sicuramente. Ed erano sicuramente importanti per capire la sua arte. Ma erano anche aspetti insignificanti e ovvi nei confronti della sua immensa capacità di lavoro, della sua serietà e della sua lucidità. Per non dire della sua intuizione poetica. Quaranta film senza contare l'opera teatrale e scritta, a 36 anni, denunciano quell'avidità di conoscere, di dire, di dimenticarsi, che accompagnavano Fassbinder quotidianamente. Lucidità e contraddizione che si conciliavano perfettamente a questa sua bulimia proíessionale ed esistenziale.

Esigente sul set, terrorizzante nella sua immagine pubblica, adorato dagli amici: per questi era La Reine. Una figura non solo mitica, (come Godard in Francia), col quale scambiare rapporti d'amore e di odio. Ma il punto di riferimento per tutti coloro che si illuminavano quando parlavano di lui, da Daniel Schmid, a Ingrid Caven, a Werner Schroeter, a tanti altri nel mondo inquieto e fertile del cinema tedesco era l'ambivalenza del personaggio, Fassbmder era riusclto a scivolarla miracolosamente nella propria arte. Che era proprio basata sull'osservazione, e sulla denuncia delle false apparenze.

Per tutta la durata di una carriera impetuosa, Fassbinder ha parlato dell'argomento più vecchio del mondo, l'amore. Ha fatto dei melodrammi, ma per denunciarne la meccanica, le contraddizioni, l'ambiguità. Per denunciare l'uso e l'effetto terroristico che l'amore sviluppa nella nostra società. «Da sempre l'uomo è stato educato ad aver bisogno dell'amore», diceva. Ma non a difendersi dalle conseguenze di questo suo bisogno.«E' più semplice farsi amare, che amare», diceva ancora. E di questo se ne approfitta il prossimo. E la società .Fassbinder è stato più grande degli altri perché come nessuno è riuscito a legare i destini dell'individuo con quelli della società; il dramma del privato a quello della Storia. L'amore, nel melodramma dell'autore di MARIA BRAUN, è un'arma ulteriore nelle mani del potere. Come il profitto, la cultura o l'educazione: chi lo manipola governa l'individuo. E, di conseguenza, sottomette una classe sociale condiziona una società tutta.

Meno evidentemente rivoluzionario nella forma di un Godard, Fassbinder è riuscito a sondare con meraviglioso equilibrio introspettivo le contraddizioni dell'animo dell'individuo del nostro tempo, e quello della società che lo esprime. Ne sono nati dei paesaggi poetici sull'animo umano che sono tra i più acuti del cinema contemporaneo (si pensi, per citare esempi noti a molti, a certe sfumature dei personaggi di Hanna Schygulla o di Barbara Sukowa). E al tempo stesso, un affresco immenso della Germania del dopoguerra; i traumi, i rifiuti, la rabbia di una generazlone.

L'arte di Fassbinder rincorreva un sogno: quello di voler sfuggire ad ogni costo al razionalismo ed allo storicismo. Il miracolo, che è poi il mistero affascinante della creazione artistica, sta nella riuscita di questa ennesima contraddizione. Lungi dal cadere nell'astrazione il suo cinema è rimasto costantemente incollato alla realtà. Diventandone uno specchio due volte rivelatore di quello che accade all'interno di un individuo e, all'esterno, nei suoi rapporti con la società. «Spero di vivere abbastanza a lungo per poter ricomporre, in una dozzina di film, la Germania così come la vedo. Cerco in me stesso la mia situazione nei confronti della storia tedesca. Il perché del mio essere tedesco».

Fassbinder non ha avuto il tempo di completare la sua dozzina. Ma l'opera immensa, talvolta comprensibilmente affrettata, spesso geniale e sempre rivelatrice di questo tedesco dei nostri tempi si offre a noi in una così vasta gamma di significati da impegnarci in una scoperta che si protrarrà a lungo.

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